NOTE DEL CURATORE

IL DIALETTO / 1.

Non è impresa facile scrivere – trascrivere - il dialetto, un idioma nato per essere parlato soltanto. Il principale dilemma che ci si trova davanti è se adottare una scrittura "lessicale-grammaticale" oppure "fonètica". Facciamo qualche caso, per farci capire meglio. C'è nel nostro dialetto, ad esempio, l'espressione: mmujaddì!, il cui equivalente italiano è: dio non voglia! Nella pronuncia non ci sono problemi, ma come scriverla, quell'espressione, sulla carta? Una prima soluzione (chiamiamola lessicale) potrebbe essere n'muja ddì, dove le parti ci sono tutte: n' per non, muja per voglia, ddì per dio. E' sicuramente una versione corretta, ma crea qualche problema: primo, perché in realtà nel dialetto parlato quelle tre parti distinte non ci sono, l'espressione è unica, una sola emissione di fiato, mmujaddì!; secondo, perché la lettura, in quel modo, diverrebbe faticosa e diffìcile, costringendo ad una decodificazione delle singole componenti e poi alla loro ricomposizione, riassimilandole alla lingua parlata.

In sostanza, l'operazione compiuta si comporrebbe di ben quattro fasi: l'espressione parlata verrebbe tradotta mentalmente in italiano; le parti, nel dialetto unite, verrebbero scomposte nei singoli elementi; questi sarebbero trascritti sulla carta; il lettore dovrebbe riportarli alla originaria espressione dialettale. Altri esempi: nzò pute, nzà viste. Nzò pute: non ho potuto. Si potrebbe/dovrebbe scrivere: 'n zò pute. Nzà viste, non si è visto: andrebbe bene 'n z'à viste, ma si presenterebbero le difficoltà sopra dette.

Per queste ragioni - al di là delle soluzioni scelte di volta in volta dall'autore, Salvatore Di Pilose - abbiamo preferito adottare, quasi sempre, una trascrizione "fonetica", cioè secondo il suono, e scrivere, ad esempio, mmujaddì.

IL DIALETTO / 2.

Ci sono varie note, nel manoscritto originale, in cui l’autore dà conto del suo uso del dialetto, con ciò stesso fornendo una specie di "guida" per l'approccio ai suoi componimenti.

Per dirla in breve, il concetto ripetutamente espresso è questo: il nostro dialetto non è lingua letteraria, ma strumento di vita quotidiana, un utensile creato e affinato per la comunicazione vocale fra persone, per di più in una società relativamente semplice, non complessa, con una rete di rapporti essenziali: la famiglia, il lavoro, la spesa, i vicini di casa, il commento sugli accadimenti. Il dialetto serve per la vita di paese.

Laddove ci si voglia spingere alla riflessione, alla meditazione, all'espressione e collegamento di concetti e sentimenti complessi o astratti, il dialetto non è più lo strumento adatto, bisogna fornirsi di altro linguaggio. Non a caso, nel manoscritto, tali considerazioni sono espresse in italiano.

[ Si pensi, per esempio, che già il termine "astratto", prima adoperato, nel nostro dialetto non esiste, proprio perché non ne esisteva il concetto corrispondente. Di questo fastidio, quasi ripulsa, del nostro dialetto verso i concetti generali e l'astrazione, un esempio lampante è fornito dalle parole "amico" e "amicizia", cioè "amiche" e "micizie". I due termini, nel dialetto, sono equivalenti e intercambiabili: e si dice, quindi, "Nicole mi è na micizie" per dire "mi è un amico": il concetto astratto, amicizia, si è immediatamente dissolto e si è calato in una persona, in un soggetto corporeo, amicizia è diventato "amico"].

Ed è anche per questo, come sottolinea l’autore, che risultano inesorabilmente ridicole o deprimenti certe prove di sedicenti "poeti dialettali" che esprimono i loro profondissimi sentimenti, le loro concettuosità e struggimenti "moderni" - quelli che abbondano nelle telenovelle o si comprano al supermercato, tanto al chilo - in un dialetto di maniera, falso come una moneta da trecento lire.

Fate la prova finestra, ritraducete quei loro componimenti in italiano (con ciò stesso, opera meritoria, liberando il povero dialetto dalle catene) e vi accorgerete di due fatti: che il dialetto, appunto, è solo cosa appiccicata con lo sputo ad una materia estranea; e che vi cadranno le braccia di fronte alla banalità dei "concetti" espressi

Per queste ragioni e convinzioni dell'autore, nel manoscritto non si trova una sola lirica, una sola poesia che esprima, in prima persona, sentimenti dolori o gioie soggettive, private. Perché viene rifiutato quest'uso improprio del nostro dialetto. La forma delle poesie è pertanto, quasi sempre, il dialogo di cortile, di piazza o in casa, con l'interlocutore che a volte interviene, altre volte tace, ma c'è.

E ciò permette, tra l'altro, di dare un po' di "movimento" e di azione alla scena, evitando l'insopportabile sentenziosità troppo spesso presente in componimenti similari. Si tratta, in definitiva, di piccole poesie, di piccole storie, che parlano della vita quotidiana col linguaggio di tutti i giorni.

Parlano della politica paesana, di figli, di mogli e mariti, dei personaggi che si incontrano per strada, di monache e di preti, a volte gaudenti. Non vengono messi in scena nè la "commedia umana" nè "uno sguardo dal ponte". Tutt'al più, un'occhiata dal Colle. E a proposito di preti e suore, vogliamo concludere con un'ultima nota.

IL PRETE.

Qualche lettore, trovandosi a cospetto delle poesie che trattano di preti e anche di monache, di solito in situazioni un po' piccanti, può avere l'impressione di un atteggiamento disinvolto, o addirittura poco rispettoso, dell'autore di fronte ai fatti di religione e di religiosi.

Niente di tutto questo. E' vero semmai il contrario, per almeno due ordini di ragioni.

La prima è, con ogni evidenza, che ci troviamo di fronte a "tòpoi", cioè luoghi presenti e ricorrenti in tutta la tradizione letteraria, da Boccaccio a Belli all'Aretino, per non citare che alcuni. Il prete voglioso e carnale è un classico, su cui molti si sono cimentati, senz'altro gusto se non quello della scrittura, e generalmente con un sorriso di complicità.

La seconda e fondamentale ragione che porta ad escludere ogni atteggiamento irriguardoso sta nell'occhio con cui l'autore osserva quei fatti e i loro protagonisti. Uno sguardo di partecipazione, di umana simpatia, volto a riportare alla luce la persona che pur esiste sotto l'abito religioso, e che di solito viene dimenticata, non più vista.

Il fatto che i personaggi vengano calati di norma in contesti intriganti o goderecci (ma non sempre: si pensi all'episodio del prete di Ortona, quando esplode l’umanissimo sentimento della paura) rappresenta soltanto la scelta - da parte dell'autore - di proporre situazioni/limite, simboliche, che meglio facciano emergere le pulsioni e gli istinti insopprimibili di ogni essere umano, pur quando essi siano stati resi muti e impraticabili da profonde convinzioni e scelte di vita.

E che questo sia il reale animo dell'autore appare con chiarezza dalla poesia titolata non a caso "Persone", in cui insieme si ritrovano il fatto, la sua condanna, l'invito all'espiazione, il riconoscimento della colpa: ma anche l'accorata invocazione della protagonista alla compassione, a non disconoscere quegli elementi di umanità, di corporeità, che non possono essere cancellati da alcun vestimento, materiale o culturale che sia.

Anche là dove affiora il sarcasmo e sembra scomparire l’umana pietà (è il caso del prete della Rocca, "La Veglia") a ben guardare si ritrova ancora qualche traccia di simpatia: la spiegazione proposta, per la veglia di intercessione verso un inquisito, è talmente inverosimile e grottesca (augurarsi che la gente muoia per intascare l'obolo dell'ufficio funebre) che quasi equivale ad un’assoluzione per le vere ragioni dell'iniziativa del prete.

Anche se... Questo episodio è veramente successo. Giorni fa eravamo a pranzo in un paesino della montagna, sopra Bomba, ed entra nel locale un prete, che si avvicina a salutare il nostro commensale.

Questi gli chiede come va, e il prete risponde che ora va decisamente meglio: nel paese dove stava prima (lo stesso in cui ci trovavamo) di gente ne moriva pochissima, forse per via dell'acqua, di rinomata bontà.

Nella nuova parrocchia, invece, il tasso di mortalità era più alto, e le finanze della chiesa se ne giovavano. Il prete scherzava (anche lui!) e questo va a suo merito. Però qualche conto se l'era fatto...

Antonio Giannantonio