I luoghi della memoria
La Marina: un bivio? (Gennaio 1993)
Il breve, ma stimolante articolo di Vito
lezzi sulla Marina (La Ginestra, dicembre 1992 ) col secco giudizio "la
Marina è un bivio” e la proposta di "inventare" una piazza per le
persone, mi trova del tutto consenziente e induce a qualche riflessione.
L'attuale stato della Marina, priva dì "identità", di rapporti
sociali e di luoghi di incontro, ciò che ne fa una realtà dispersa e isolante,
è un punto di arrivo, l'ultima fase di un processo di sgretolamento.
Ma non è stato sempre così.
Se attingo dai miei personali ricordi,
diciamo degli ultimi tre-quattro decenni, trovo una
Marina diversa, dal punto di vista della struttura sociale, dell'attività
economica, dei conseguenti rapporti umani. La Marina, fino a non molti anni fa,
era un paese, reale, con varie e significative attività produttive. C'era la
fornace, la pesca, la carpenteria - quella delle barche - l'agricoltura, la lavorazione
del ferro, la falegnameria. C'erano i mestieri, vi erano i caffè e le cantine,
E c'erano, di conseguenza, i "fornacari", i
marinai, i carpentieri, i ferrai, i falegnami, i calzolai, il "sartore", i muratori, gli uomini "a
giornata", c'erano i cafoni ( adopero questo termine, probabilmente di
buone origini, perché esso a San Vito è sempre stato usato in senso tecnico -
lavoratore della terra - e mai dispregiativo. E ciò non è privo di significato,
nel giudizio su una comunità).
Tutto ciò, l'esistenza di precise attività
economiche e di una chiara articolazione sociale, creava e rendeva possibili
gli scambi fra le persone e i ceti, ognuno portatore di una propria
"cultura" definita, di un’autonoma visione delle cose, di proprie
abitudini. Già, perché per esserci effettivo confronto, dialogo, è necessario
che ognuno degli interlocutori abbia una propria "identità", anche
sociale.
Questo oggi non c'è più. Chi l'ha vissuto sa
di parlare di ieri, appena; ai più giovani sembreranno cose di un secolo fa. La
produzione industriale, la distribuzione di massa, hanno tagliato l'erba sotto
i piedi, le stesse radici, a quelle attività economiche. Hanno reso sorpassati
e inutili quasi tutti i mestieri. La cantina, i caffè, dove ci si incontrava
tutte le sere e l'intera domenica per il “bicchiere", per giocare a carte
e parlare, sono stati soppiantati dal bar, un aperitivo, un caffè in piedi e
così via. Sono scomparsi i ruoli e i luoghi.
Si è verificata, nel giro di pochi anni, una
mutazione genetica. Ma un paese, una comunità, per avere una vita, per esistere, hanno bisogno dell'insieme di queste cose, tessuto
economico, articolazione sociale, luoghi fisici di incontro. Ben venga la
piazza, quindi, per ripartire, e diamoci da fare per ottenerla. Diamoci da fare
anche per il resto.
Alla Marina è capitato come ad una noce
dimenticata in fondo al sacco. Prima si è rinsecchita e svuotata all'interno
(le attività produttive, i mestieri...) poi qualcuno l'ha calpestata e ne ha
rotto anche il guscio esterno: le costruzioni e la colata di cemento sul mare,
il traffico dissennato, il Feltrino ridotto ad una fogna. E ancora costruzioni,
muri, cemento, asfalto, dappertutto, senza una piazza, un parco, un giardino,
una passeggiata, quasi che le persone, anche i bambini, debbano solo essere
rinchiusi a forza fra quattro pareti e 100 metri quadri di mattonelle. Gli
spazi, gli spazi di vita, sono stati riservati alle costruzioni e alle
automobili. Non vorrei parlare di "politica". Ma in realtà quello che
è avvenuto è politica.
La colpa grande, storica, della DC a San
Vito, nei suoi trent'anni di predominio, è di non aver saputo vedere e guidare
i mutamenti economici, il cambiamento che avveniva. Ha lasciato che il vecchio
scomparisse senza un "nuovo" a sostituirlo. Ha lasciato
"morire" la Marina (e tutta San Vito) esercitando il suo potere solo
in termini di edilizia, pubblica e privata, cemento, asfalto, rendite. Ha visto
la foresta, cioè i grandi interessi che si muovono dietro le aree edificabili e
le costruzioni. E ha ignorato gli alberi, ossia le persone, gli abitanti, i
loro bisogni economici, sociali, umani. La Marina è oggi, dal punto di vista
della sua cultura, un qualcosa di indefinito e vagante, se per cultura
intendiamo valori condivisi e stratificati, riconoscibili, che definiscono i
caratteri di una comunità. E ciò è avvenuto sicuramente perché mancano gli
"spazi di vita", ma anche perché della Marina è stata cancellate la
storia, la rete dei rapporti economici e sociali, la memoria. E poi perché
manca il lavoro; non va mai dimenticata la funzione del lavoro quale fondamento
della riconoscibilità individuale e sociale delle persone. Ripartiamo dalla
piazza, alla Marina. Perché ne hanno necessità tutti quelli che ci abitano e ci
vengono. E nella consapevolezza che chiedere, finalmente, qualcosa che serva
non alla speculazione, ma alle persone, significa cominciare a cambiare rotta,
cominciare a "vedere" in modo diverso, a investire per la ripresa,
anche economica, di questo nostro paese. Dopo trent'anni di ignoranza al
potere.
Antonio Giannantonio
Il vallone della Marina (Febbraio 1993)
Ci arrivavamo per un sentiero un po' storto, con un inizio in
discesa. A sinistra c'era una scarpata, con un unico albero, un sorbo; a destra, un campo
coltivato a grano. Terre, si diceva, tutte di Marcantonio, figura mitica di possidente, senza
tempo nè luogo e senza dimora definita. I suoi unici
riferimenti terreni,
per noi,
erano quei campi che calpestavamo - sempre con un residuo di timore - e i suoi "socci"che li "rifacevano", un po' dappertutto: i "ciuffiIavuve", nel nostro caso. La farmacia, e le altre costruzioni
attorno, sono poi sorte lì, su quella scarpata, che prima scendeva fino a toccare il vallone.
Un giorno, sul campo di
grano a
destra, spuntò il traliccio dell'alta tensione. Fu il primo segnale del
cambiamento.
Ma non
ce ne accorgemmo, il vallone non era stato toccato. "Vallone", per noi,
racchiudeva
due
significati: il fiume (non l'abbiamo mai chiamato Feltrino, in realtà); e lo spiazzo incolto e non arato,
col fondo un po' sabbioso, creato dalla curva del fiume. Era lo spazio che accoglieva le nostre
giornate, e si riempiva di esse. Era il campo di pallone, lo stadio per le corse, il posto per
giocare a "sticchio", per ascoltare - e
acchiappare, qualche volta - le rane, per buttarci accaldati nel vallone, per berne l'acqua
allungati sulle pietre del fondo. Allora si poteva. Il luogo per parlare, da
ragazzi,
fra
adolescenti. Le uniche volte che non si entrava in quello spazio, almeno per giocare
a pallone, era quando
le donne ci portavano a
sbiancare
i "rotoli" per le lenzuola. Le tele venivano immerse nell'acqua, poi stese sull'erba, poi ancora
nel fiume, fin quando l'alternarsi di acqua e di sole non tramutava in bianco il giallo
paglia del lino. Il vallone-terreno, e quindi anche il vallone-fiume, erano chiusi
da una cortina di
vegetazione, un imponente
sipario
di pioppi altissimi (venti-trenta metri, nel ricordo, ma forse erano più bassi) con la corteccia biancoverde, a scaglie, e una specie di sottobosco fatto
di arbusti, ulivi selvatici, sambuco, canne. La barriera iniziava dal limitare del campo di
grano, verso l'abitato, e
continuava
in direzione del fiume, più profonda dalla parte del mare, dove c'era, sull'altra scarpata, il frantoio
di Peppino Mancini. Quel
triangolo
di terra smussato, tra gli alberi e la curva del fiume, era il nostro spazio. Ci si penetrava attraverso
una specie di galleria
ricavata,
a furia di passarci, tra le frasche e gli spini sotto i pioppi. La prima porta del
campo
di
pallone - due mucchietti di terra - doveva corrispondere, grosso modo, all'attuale pista da ballo del
campeggio. Sull'altra porta, a valle, starà oggi ad arrugginire qualche roulotte... Poi finì
tutto. Forse ci cacciarono, o forse eravamo diventati grandi, nel frattempo. Non ci andò più
nessuno a giocare. Il terreno fu venduto a uno venuto dalla Rocca, tale Cantagalli, che aveva costruito
la prima casa
sulla
scarpata. Costui spiantò il sottobosco, e si videro per la prima volta i tronchi dei
pioppi,
fìno alla base. Così
nudi, sembravano ancora
più
alti. Dopo, arrivarono i camion, a cassone scoperto. L'uomo della Rocca aveva venduto i pioppi, come
legname. Si sentì per qualche giorno l’urlo delle motoseghe, poi non ci fu più niente, nessun altro
rumore di fronde. Non ci
misero
molto, a farla finita. (a.g.)
Presenze (Gennaio 1994)
Circolavano ancora leggende, allora. Era un
mondo che stava scomparendo senza accorgersene. Le barche da pesca, i motori,
erano sempre meno ormeggiate agli anelli e alle bitte di ferro conficcate sul
molo e chi voleva continuare sulle antiche vie del mare aveva cominciato a
trasferirsi a Ortona. Motori invece cominciavano a comparire sulla terra delle
campagne, che da posti di fatica - un tutt'uno fra piedi affondati nei solchi,
mani che premevano sull'aratro e buoi aggiogati- diventavano luogo di lavoro.
Ma i miti elementari di quel mondo che cambiava pelle e sostanza continuavano a
tentare di resistere, nella vana difesa di uno spirito pagano e magico che era
aleggiato sui mari e si era aggirato tra querce e ulivi. Mike Bongiorno bussava
alle porte. Uno di questi miti era lu rifarìte,
o rifère.
Nome dall’etimologia per noi incerta ("colui che ricompare"?) e
figura ben diversa dal fantasma, se quest'ultimo evoca immagine di trasparente
e fors'anche ironica leggerezza. Lu rifarìte era a tutto tondo, rivenuto
dal mondo dei morti nella sua pesante corporeità, immobile sul luogo che ne
aveva visto la scomparsa, magari un annegamento, e sui cui tornava a volte a
portare silenziosa testimonianza del dolore senza pace per quel violento
distacco dalla terra. Qualcuno se ne vedeva ancora, di tanto in tanto e sempre
più di rado. Soprattutto restavano segnati, nella tradizione orale e
nell'immaginario collettivo, i posti delle loro apparizioni, del muto
rimprovero al mondo dei vivi. Altra leggenda era il lupo mannaro, lu lope minare.
La metamorfosi avveniva nelle notti di luna piena, e a chi era lope minare (che non di malattia si
trattava, ma di una condizione) cominciavano a spuntare il pelo, le unghie, le
zanne e insieme piombava addosso il bisogno irrefrenabile di fuggire di casa
alla ricerca di acqua e pantani entro cui rotolarsi, accompagnato e inseguito
da mute di cani abbaianti alla luna e al prodigio. Cercava acqua e solitudine,
l'uomo lupo infastidito dai cani, entro cui dare sfogo alla malvagità che
l'aveva assalito. Era pericoloso solo se per avventura si imbatteva in un
umano. In quel caso, ad evitare di essere sbranati o, peggio, morsicati e
condannati alla sua stessa sorte, bisognava avere la destrezza di pungere la
belva e spillarne una goccia di sangue, il lupo sarebbe tornato uomo
all'istante. L'accortezza, nelle notti di plenilunio e se proprio si doveva
uscire di casa, era di prestare orecchio all'abbaiare dei cani, tormento e spia
del lupo mannaro, e starne lontani. Finita la nottata, riassunte sembianze
umane e inzaccherato di fango, il lupo se ne tornava a casa. Qui avrebbe
trovato la moglie per accudirlo e un grosso bandone d'acqua davanti alla porta
per ripulirsi. Il giorno dopo sarebbe uscito normale fra la gente, e solo
l'intima spossatezza e un residuo rossore degli occhi avrebbero testimoniato
della notturna ferinità. Alla Marina ce n'erano un paio, il primo nei paraggi
del mare e l'altro nella parte più alta dell'abitato, e lo sapevano tutti,
forse anche gli interessati. (a.g.)
Sassi (Gennaio 1994)
A ciascuno è dato in sorte di vivere a
cavallo
di
avvenimenti che segnano un passaggio e dopo i quali qualcosa cambia, siano essi fatti collettivi o
privati, rimarchevoli nelle storie pubbliche o annotati soltanto nel personale calendario
che ognuno si trascina
dietro
nel corso dei suoi giorni e che costituiscono il supporto e la trama della sua esistenza, episodi e
cose rispetto ai quali c'è un prima e c'è un poi, che intervengono come una cesura del tempo.
Noi siamo vissuti
prima e
dopo del mare delle pietre e dei pesci. Facevano male quei sassi sotto i piedi scalzi sul finire del
maggio, ma prima che
luglio
arrivasse le palme si erano indurite e i ragazzi, noi fra essi, ci correvano sopra quasi fosse prato, da
una parte fino all'altra
della
spiaggia, da sotto la stazione ai mattoni del porto, in una gara ansimante
sgangherata e ridente. Pietre lisciate dai tempi, tiepide o infuocate sotto la pelle,
giunte fin
là
chissà da quali epoche e da dove, se rotolate dai colli o posate dai fiumi o ricacciate a riva dal
mare. La sera sulle
stesse
pietre arrivava qualche adulto con la lenza, alcune braccia di filo di nailon robusto
arrotolato attorno a un'assicella di legno o di sughero, senza canna, con un piombo e un paio di ami appesi
all'estremità. Gli ami
venivano
armati con pezzi di seppia o di sarde, poi il pescatore roteava la lenza e la scagliava nell'acqua,
a qualche diecina di
metri
dalla riva. Non di più. E se andava bene, se specie c'era stata qualche
mareggiata a rimestare il fondale, il filo si tendeva disopra all'indice
piegato e una spigola o un capitone ci si azzannava. Lì, a riva, praticamente. Quel mare ce l'hanno
tolto, quei sassi, i
pesci.
L'attaccatura della spiaggia partiva da pochi passi avanti a Garibaldi e andava a ricongiungersi ai
primi scogli della stazione, seguendo una curva leggera verso terra indotta dal movimento
delle onde. A mezzo
metro
d'acqua le pietre sparivano e tra le dita si sentiva la sabbia, il fondo scendeva con fidata
regolarità, e questo distingueva la spiaggia della Marina dall'altra, traditora, della Marinella, o
da quella di
Turchino. Era una spiaggia che
andava e veniva.
D'estate
ci stava, poi dall'autunno le mareggiate la sbattevano fino a farla scomparire
nell'inverno, onde che passavano il porto da una parte all'altra e si
mangiavano le
pietre
fin sotto alle fondamenta degli stabilimenti. La spiaggia seguiva le stagioni,
ne segnava e
accompagnava le vicende, con i sassi che tornavano a riprendere il loro posto nella primavera, come
le foglie abbondanti
e
confuse sui cespugli della riva. Erano pezzi di roccia seppur levigati, era una scansione del
tempo, allora inavvertita
oggi
struggente, primordiali nella loro pretesa di assolutezza, arroganti
nell'ostinazione a non considerare le esigenze di ferrovie, di traversine e
binari, di delicati glutei domenicali e dei pilastri di stabilimenti. E ce li hanno tolti.
Quelle pietre, quel mare, i pesci a riva non ci sono più. Hanno buttato un recinto di massi,
dovunque è arrivata la
sabbia,
a ricoprire le pietre e il mare e rinsecchire gli scogli fin negli anfratti, a farne migrare via, se
ce l'hanno fatta,
cràparelle e pelosi. Erano poche cose, dopotutto, la sagoma di un pesce sotto
l'acqua, sassi che facevano male ai piedi, un braccio di mare trasparente e via via più profondo. Piccole cose, però ci mancano. (a.g.)
Il Museo, o il luogo della memoria (Marzo 1994)
La storia ci è cucita addosso, come un
vestito su misura. Siamo, noi persone dell'oggi, al punto in cui il flusso
della storia ci ha portato. E ci stiamo, a volte con la capacità di guardarci
addietro, cercando di scorgere e ricostruire il cammino del fiume (le curve, le
rapide, le anse, i tratti limpidi, quelli limacciosi); a volte riuscendo a
sollevare la testa dal filo della corrente per individuare, o tentare di
definire, il percorso nuovo che è davanti; altre volte, con gli occhi
socchiusi, facendoci ora cullare ora trasportare dallo scorrere degli eventi.
Uno dei fili di cui la storia si serve per intrecciare la sua tela è la
memoria, per quello che la memoria significa nel costruire i caratteri distintivi
di una comunità, di un popolo; nel determinarne gli atteggiamenti, le reazioni,
nel definire con il tempo la sua identità, le affinità. La memoria non è il
ricordo, il ricordo è un'isola, tante isolette e scogli che affiorano da una
superficie più vasta e indefinita. La memoria fluisce fra le epoche, fra le
persone e le famiglie, le raccorda, le plasma, anche quando il suo corso
avvolgente non si scorge nè si tocca. E conviene,
allora, aggiungere qualche altra isoletta, allargare un passaggio ostruito
nell'alveo, rafforzare un argine, ritracciare una rotta, tentare di riannodare
la trama logora, o persino lacerata, della memoria. Si avvia a San Vito la
costruzione di un museo, di un luogo della memoria. Troverà posto al piano
terreno del palazzo sulla destra del vecchio municipio, in piazza, lungo il
vicolo che conduce al nuovo Comune. Locali messi a disposizione - con un gesto
di liberalità tanto squisita quanto discreta - dalla signora Pierina De Ferri. Il museo - o meglio, questo spazio cui
affidare la memoria - cercherà di essere come il simbolo dell'uomo immerso nel
tempo che i secoli ci hanno consegnato: il Giano bifronte, uno sguardo rivolto
al passato, un altro al presente per scorgere il futuro. Vi si troveranno le
tracce della società marinara e contadina che ha segnato e costruito il nostro
paese. Sarà il luogo dove poter dare espressione e visibilità all'arte contemporanea.
E sarebbe bello, se lo spazio sarà sufficiente, potervi collocare la
biblioteca, per restituire alla consultazione migliaia di volumi e fare di
essa, della trasmissione scritta del pensiero e delle testimonianze, la cornice
dell'ideale ricucitura fra le epoche e i giorni. Va riconosciuta alla nuova
amministrazione di San Vito la capacità - e insieme con essa la determinazione
e l'entusiasmo - con cui in pochissimo tempo ha perseguito e ormai raggiunto
questo obbiettivo. I locali sono a disposizione, vanno ora adattati e
preparati, ci vorrà un po' di tempo e qualche soldo. Entrando dal portone sul
vicolo, i primi passi si posano, nell'andito, su un selciato a rombi costruito
con rara perizia di pietre marine e mattoni a mano; dentro, una fuga di stanze
pavimenti di mattoni rettangolari e ad esagono il coperchio di una cisterna
scavata nella terra volte ad arco e a raggiera, bottiglie di vino ricoperte di
polvere. Ci sono già, fuse e palpabili le impronte della nostra cultura: il
mare con le sue pietre levigate, la sapienza antica di muratori e artigiani, il
vino e la campagna. Non è uno spazio grandissimo. Quello che manca in estensione,
bisognerà recuperarlo in profondità, con una ricerca attenta dei documenti, dei
reperti (delle tracce di una cultura, con la vita che si riuscirà a far
circolare sotto quelle volte. Occorrerà la collaborazione creativa degli
abitanti. Il museo, il luogo fisico della memoria e del presente, inizia da un
atto amministrativo, da una volontà e da una delibera del Comune. Poi, è una
costruzione collettiva, dell'intera comunità. (Antonio Giannantonio)
Estati (Giugno - Luglio 1994)
Il vocabolario era essenziale, come le funzioni
che vi corrispondevano: circhione e ceve, che forse diranno poco o nulla, a chi questo mare lo
conosce per la sabbia metastatica che lo invade e per il fiume che vi convoglia
tutto l'indesiderabile prodotto altrove. Era diverso, tempo addietro. Il cerchione
si costruiva con un filo di ferro, di varia consistenza a seconda dell'uso a
cui serviva. Se ne piegava con la pinza o con un sasso un’estremità ad anello,
vi si infilava l'altro capo curvato a gancio, poi anche quest'ultimo veniva
chiuso. A questo punto si sagomava a cerchio il filo di ferro, vi si cuciva
attorno una reticella (la rete può anche essere assicurata direttamente al cerchione,
infilando il ferro tra le maglie ma poi, raschiando gli scogli, si rovina
presto, conviene sostenerla con refe robusto) e si legavano al cerchio,
simmetricamente, tre spezzoni di spago riuniti alla sommità e riannodati ad una
corda più lunga, quella che serve a calare il cerchione là dove si vuole tra
gli scogli, appesantito da una pietra, e poi a salparlo. Con un minimo di
pratica costruire un cerchione è gioco da ragazzini. Il cerchione era basso,
appena un po' concavo e con rete a maglie larghe, per la pesca del peloso;
andava fatto invece più profondo, a calza e con rete fitta e sottile, per
pescare le salippice, i piccoli gamberetti, che si
muovono a scatti nelle sacche fra gli scogli, dove l'acqua è calma. Di notte,
le salippice vanno a sistemarsi sul fianco dello
scoglio, la luce di una lampadina ne fa brillare gli occhietti rossi. Per
prenderle, allora, bisogna adoperare la vòlica
sagomata a triangolo, facendola risalire rasente col lato piatto e con
movimento regolare e non troppo rapido, sennò scappano. L'ultima operazione,
prima della pesca, era quella di sistemare sul cerchione il pesce o pezzo di
pesce, "lu ceve".
Parola strana, forse derivata da cibo, cibàre, "civare" e quindi cevo/ceve, che sembra contenere - piuttosto che la perfidia insita
nell'italiano "esca" – quasi un'idea, una maggiore dose di naturalità,
"ciò che l'animale mangia". L'insidia resta celata nella parola, come
la rete sotto il pesce. Si andava tra gli scogli, quelli della riva, le
barriere di oggi e la sabbia ancora non c'erano; andavamo sotto la stazione, al
porto, a Cintioni, a volte soli, più spesso in
compagnia, e si calavano i cerchioni. Il peloso è animale furbo, prudente, di
diffidenza estrema, fa cento tentativi prima di avvicinarsi al cevo, si sporge appena di traverso dalla tana con uno zampone,
si ferma, rientra, passa tempo, ricompare, si ritira, fa una prima finta di
accostarsi, si blocca a metà strada e solo alla fine decide l'attacco e la sua
forma, buttandosi rapidamente sul cevo e
aggrappandolo con tutto il suo corpo o invece resta di traverso e agguanta il pesce
con uno solo degli zamponi, pronto alla fuga. Basta il rumore di uno zoccolo,
una parola gridata, una pietra smossa o l'ombra inavvertita di una spalla
proiettata sull'acqua e il peloso scappa per sempre, non resta che ritirare il
cerchione e trovare un nuovo buco, un altro anfratto.
Gli anziani andavano a calare di prima
mattina, l'ora migliore, noi ragazzi di pomeriggio, col sole che coceva sulle
schiene e i pelosi meno sensibili al richiamo del cibo. Era sufficiente una
mano, per tutta l'attrezzatura, i cerchioni e la martafella,
il sacchetto di rete che all'andata portava il pesce delle esche e un po' di
spago, al ritorno i pelosi se andava bene e nel frattempo serviva pure a
riporre gli zoccoli, così si evitava rumore e fastidio. Calati i cerchioni, si passava
coi piedi induriti da uno scoglio all'altro, scrutando ogni tanto e controluce
cosa succedeva di sotto, e si tornava quando il sole cominciava a scendere e il
crostaceo non mangia più. Erano fatti così, quei pomeriggi di pesca, rare
parole, pochi attrezzi, lunghi silenzi. Il mare e il fiume erano limpidi e
c'era vita tra gli scogli. (a.g.)