Rileggendo un vecchio numero de "La Ginestra" mi sono imbattuto in un racconto della Signora Anna Marino Radoccia, che parlava del suo rientro a San Vito subito dopo la guerra.
Ve lo ripropongo, perchè ritengo che sia un documento di vita reale e commovente nello stesso tempo.
Una carezza
Eravamo partiti da Bergamo la mattina presto su un camion che andava a carbonella. Potevano essere le cinque.
La città era ancora addormentata. Una leggera brezza faceva muovere appena le foglie degli alberi.
Nostra madre sedeva vicino all'autista con la mia sorellina più piccola in braccio. Noi ragazzi, cinque, eravamo accampati alla meglio dentro il veicolo.
La splendida giornata, la calma che c'era intorno a noi l'aria dolce e l'odore dei tigli ci parvero di buon auspicio e risollevò il nostro spirito.
La casa in Abruzzo ci sembrò più vicina dì quanto realmente fosse.
Il camion procedeva a fatica. Ogni tanto sembrava che non ce la facesse a continuare il viaggio: ansimava, sbuffava, si fermava, riprendeva ad andare.,.
Dopo il 25 aprile di quell'anno, tutto sembrava essere precipitato intorno a noi, per noi. La mancanza di notizie di mio padre, un generale della Milizia, era la cosa che più ci angustiava e non potevamo neanche chiedere notizie di lui.
E poi, a chi? Dei nostri amici, alcuni erano morti, di altri non si sapeva più niente.
Senza più mezzi, con i soldi che sarebbero bastati per poco tempo ancora, non potevamo più aspettarlo, dovevamo tornare in Abruzzo, Non avevamo altra scelta.
Saremmo andati ad abitare in campagna; nella casa dei nonni materni a metà strada tra Ortona e San Vito. Se pure esisteva ancora la "Casa dei Gelsi", la casa delle vacanze!
Eravamo, intanto, arrivati al Po.
Si faceva sera e dal fiume saliva e si spandeva lungo gli argini ed invadeva la pianura, una leggera nebbiolina, gli alberi, le case sfumavano; ogni cosa aveva un aspetto irreale...
Ed ecco: ora il fiume sembrava il mare, ne sentivo lo sciacquìo dolce e ritmato e mi pareva di percepire quasi l'odore di salmastro.. Mi apparvero la spiaggia sassosa ed il molo del mio paese ed il "trabocco" fra gli scogli del "turchino".
Ad un tratto, come in un
sogno, sentii delle voci concitate, il camion si arrestò all'improvviso: tre Partigiani con i mitra ci intimarono di scendere, chiesero i nostri documenti, ci guardarono sospettosi... Uno di loro ci disse di seguirlo al comando.Guardai mia madre: sembrava smarrita, tremante. La vidi prendere dalla borsetta una busta: erano soldi e
li offrì all'uomo:"E tutto quello che ci è rimasto", riuscì a dire.Io avevo il cuore gonfio, ma non volevo piangere: stringevo i denti nel tentativo di frenare le lacrime...
Fu allora che il Partigiano più giovane si avvicinò. Sembrava il loro capo. Prese il denaro e lo restituì a mia madre e, voltandosi verso i compagni, disse deciso: "Possono andare!"
Poi con la mano, delicatamente, mi sfiorò una guancia, come per una carezza.
Mentre mi aiutava a salire sul camion mi chiese, piano: "Come ti chiami?".
Non potei rispondere. L'emozione, lo stupore
, la commozione, mi avevano chiuso la gola; non riuscivo a parlare. Fu Bruno, il mio fratellino di otto anni, che gli disse:"Si chiama Anna!""Addio, Anna!"
Chiuse
di colpo la portiera dell'autocarro, poi fece cenno all'autista di partire.Non ho saputo più niente
di lui. E come avrei potuto, del resto, non conoscevo neanche il suo nome!Ma quel gesto gentile mi aveva dato nuova forza e coraggio. Dunque non tutto era perduto, se esistevano persone dolci come lui. Capii che potevo ancora sperare.
Tutto questo è veramente accaduto più di cinquant'anni fa, ma, anche se è passato tanto tempo, quando ripenso a quegli avvenimenti, mi sembra di sentire ancora sul viso il calore dì quella carezza.
Anna Marino Radoccia