I sanvitesi ed il mare (3)
Dopo l’unità d’Italia si assiste ad una recrudescenza nella tassazione generale e ciò coinvolse anche i nostri pescatori che nel 1871 si videro imporre un dazio sulla vendita del pesce all’ingrosso in ragione di 60 lire per paranza grande e 10 lire per ogni paranzella da pagarsi anticipatamente da semestre a semestre portate a 200 lire l’anno successivo. [1]
Un episodio particolare che dimostra come la pesca era comunque diventata un elemento identificativo della società sanvitese fu dato dalla proposta di un consiglio comunale del 1874 di aumentare i locali del Carcere con l’affitto di altri 5 vani dei quali una stanza doveva essere destinata al recupero “potendosi i detenuti occupare al lavoro principalmente delle reti, cuciture di vele od altro, che sarebbe non solamente utile per il Governo, per l’occupazione dei detenuti stessi, ma anche per la marina pescareccia”.[2]
I marinai sanvitesi ritenevano, comunque, che lo scalo marittimo attuale non potesse ritenersi adeguato alle nuove esigenze di mercato e si cominciò a sentire il bisogno di un porto degno di tal nome. Era impensabile che le casse comunali di San Vito, allora come adesso, potessero permettere un investimento del genere e si pensò anche ad un consorzio fra i comuni limitrofi, “Considerando che per i lavori di costruzione di porto in questa marina, per quanto limitare si vogliono, occorre una spesa considerevole che non potrebbe essere sostenuta da questo comune”.[3]