I sanvitesi ed il mare (2)
Il passaggio dalla vela al motore, però, penalizzò moltissimo lo scalo di San Vito non potendo accogliere bastimenti di grandi dimensioni. Infatti, nonostante negli anni tra il 1867 ed il 1870 si ebbe un notevole traffico nei porti abruzzesi con importazione soprattutto di legname da costruzione, carbon coke e combustibile greggio ed esportazione in grande quantità olio di oliva, frutta e semi di lino il nostro porto vide l’arrivo soltanto di 54 bastimenti rispetto ai 173 di Ortona ed ai 456 di Pescara e con 637 tonnellate di merci in partenza che rappresentavano appena la quinta parte del traffico di Ortona.[1]
[1] G. Albi, op. cit. p. 64
Anche chi si occupava di pesca non era in condizioni migliori: nel 1870 Giulio Javicoli[1], Vitantonio Olivieri e Francesco Saverio di Francescantonio, padroni di barche esponevano all’amministrazione la propria contrarietà alla tassa sulla vendita del pesce denunciando una povertà generalizzata in tutta la marineria sanvitese già gravata dalla tassazione sulle paranze. Il cav. Giuseppe Dazio, consigliere comunale, si fece carico della protesta evidenziando nel Consiglio Comunale del 27 gennaio 1870 come i marinai erano “già in miseria per la trentina sulle paranze e già soddisfano il focatico” ed in quella occasione venne tolto il dazio e ci fu la vendita libera del pesce.[2]
Dopo l’unità d’Italia si assiste ad una recrudescenza nella tassazione generale e ciò coinvolse anche i nostri pescatori che nel 1871 si videro imporre un dazio sulla vendita del pesce all’ingrosso in ragione di 60 lire per paranza grande e 10 lire per ogni paranzella da pagarsi anticipatamente da semestre a semestre portate a 200 lire l’anno successivo. [3]
Un episodio particolare che dimostra come la pesca era comunque diventata un elemento identificativo della società sanvitese fu dato dalla proposta di un consiglio comunale del 1874 di aumentare i locali del Carcere con l’affitto di altri 5 vani dei quali una stanza doveva essere destinata al recupero “potendosi i detenuti occupare al lavoro principalmente delle reti, cuciture di vele od altro, che sarebbe non solamente utile per il Governo, per l’occupazione dei detenuti stessi, ma anche per la marina pescareccia”.[4]
I marinai sanvitesi ritenevano, comunque, che lo scalo marittimo attuale non potesse ritenersi adeguato alle nuove esigenze di mercato e si cominciò a sentire il bisogno di un porto degno di tal nome. Era impensabile che le casse comunali di San Vito, allora come adesso, potessero permettere un investimento del genere e si pensò anche ad un consorzio fra i comuni limitrofi, “Considerando che per i lavori di costruzione di porto in questa marina, per quanto limitare si vogliono, occorre una spesa considerevole che non potrebbe essere sostenuta da questo comune”.[5]
[1] Il cui nome completo era Tito Giulio Mariano Iavicoli (1824 -1883) nipote di Francesco Saverio (1741) marinaio così come il figlio Vito (1767) da non confondere con il Giulio (1891), agricoltore nipote del suddetto Tito Giulio, domiciliato nell’attuale sede municipale, ex-Palazzo Baronale dei Caracciolo Santobuono, ed i cui discendenti sono stati gli ultimi proprietari della stessa.
[2] Arch. Stor. Com.– Delibere di Consiglio Comunale 1870-1886. pag 2f
[3] ivi pag 33r
[4] ivi pag 34r
[5] ivi pag. 297r