Cesare de Titta (3)
Al colle di San Vito "cchiu ffiure che ffòjje" è dedicata, inoltre, una delle più belle tra le poesie di "Terra d'oro" nella sezione della "Primavera".
Fragranze salmastre salgono dagli scogli frammiste al profumo penetrante delle zagare sul colle illuminato dal riso del cielo nel sole di maggio. Nell'odore del fiore bianco dell'arancio si coglie il segnale di un altro (Di ch'addure Filuméne?), nell'oro e nella rotondità del frutto si rispecchiano le guance tonde e il sodo turgore del seno della giovane donna (che guance tunne e che pettucce piene! / Filuméne si gne nu purtugalle) sì che questa composizione è tra le più maliziose e sensuali, carica dell'aria odorosa di "Rose di magge", delle rose bianche e rosse, fiorite all'improvviso, "quando, nuda le braccia, Caravìta / il collo si lavava alla fontana".
Partito Giuseppe Javicoli prima per Chieti dove iniziò la carriera di dirigente sanitario dell'Istituto di Previdenza Sociale e poi per Padova (mori a Vicenza nei 1941), il de Titta a San Vito non venne più, ma sempre il bel colle, la spiaggia e il "velivolum mare" gli tornavano in cuore ogni volta che all'amico carissimo scriveva.
Alle Kalende d'aprile del 1929, e sono ormai anni che i due non s'incontravano, ecco come il poeta ricorda con struggente malinconia altri tempi, altri giorni: Ad collem litusque tuus, Joseph, revertit / mens mea, cum Sanctus nunc redit ille tuus. / Ad te iucundus veniebam deque fenestra / oram spectabam velivolumque mare. / Nunc abes et tecum quae tam dileximus absunt: / omina sola manent temporis eius. Vale!
A.M.