La tele

 

   Da quando non andava più a sfiancarsi nelle campagne zaDdullerate metteva tele e tesseva da mattina a sera fino a la ‘mmurlite. La voce ancora chiara accompagnava di tanto in tanto il ritmo della sua fatica con canti e stornelli.

   - Amore, amore jétteme ssa fune! –

   Non tesseva per sé né per la figlia ormai adulta. ZaDdullerate campava tessendo, ma era brava e pertanto richiesta. Avere una sua prestazione equivaleva a mettersi in lista d’attesa.

   Lei tesseva chilometri di ruócele di panne lisce o arrutate, terlice o nubbelette, a cquatritte o a scrimapesce, o non so più di quanti tipi.

   La dodde che si assegnava alle figlie non poteva mancare di un congruo numero di tali ruócele che andavano a sommarsi a quelli tenuti in serbo dalla dodde della mamma e anche della nonna.

   Li ruócele erano una vera ricchezza patrimoniale.

   - S’a purtate nu bauje di ruócele! – Oltre, naturalmente, a tutto il resto del panno già tagliato, cucito, cifrato, ricamato.

   Qualche committente ritirava la tela ancora grezza, qualche altra la faceva sbiancare e a questo provvedeva la figlia.

   Il Feltrino, limpido, era a portata di mano e non appena arrivava la buona stagione i prati all’intorno biancheggiavano di panne che se deve arimbonne prima che si asciugasse del tutto.

   Andavo spesso da zaDdullerate e la seguivo in silenzio. Non si doveva disturbare e non si doveva toccare niente. Il rumore del telaio, d’altra parte, non consentiva la conversazione, ma la sequenzialità ritmata delle operazioni che stringevano in modo perfetto i fili facendo crescere, sia pure lentamente il tessuto, mi affascinava in modo straordinario.

   Come “la bella Piattide” di un delizioso epigramma dell’Antologia Palatina che “bellamente tesseva cacciando il sonno all’alba” anche la mia tessitrice se ne andò ottantenne nel mondo dei più.