Lu velòcce
L’alterco tra le due donne era stato aspro e senza esclusione di colpi; il linguaggio denso di metafore ardite e traslati pregnanti; la voce impostata come si conviene nella rappresentazione di un dramma dal sapore antico.
Da tempo immemorabile non avevo più assistito a scene siffatte che presupponevano spazi “interminati” come le aie, le strade bianche, le cucine ampie e nere nelle quali esplodevano, quando non c’erano i mariti ed era assente la matriarca, le rivalità e i rancori delle più giovani nuore. Delle due, l’attaccante aveva tenuto per ultimo, come nella climax di una consumata arte oratoria, la recriminazione più grave, quella che «coce di cchiú», tanto che l’altra aveva semplicemente esclamato: «Scià ‘ccise! Tenive su velòcce ‘n cuorpe e n’ te le facì’ scì’!».
«Za Lucie», invece, che ha ricomprato qualche gallinella dopo il furto prenatalizio di altre amate e più numerose galline («l’avè currïute pe’ tutta la staggione») mi confidava che le nuove non sono in grado di «fetà’ l’ove a ddù’ veluòcce»; «le cunghilijeje, ma dope le va jettenne; s’a ‘mmastardite pure le halline!».
Dicono Finamore e Pansa che «velòcce» deriva dal latino “ovi-luteum”, ovvero il “giallo dell’uovo”.
a.m.