La zéleche
L’amico Remo Carbone mi confida, mentre cerca di allentare la mia tensione dinanzi ai suoi, per me, infernali strumenti, che la leggera nevicata di un mese di novembre della sua adolescenza «sopr’a lu colle di le Rapanice» gli era apparsa come «’na zéleche di neve» e gli aveva suggerito un adolescenziale componimento di cui mi recita alcuni versi: «’Na zéleche di neve / c’ammanté’ lu verde di li buosche e di li live. / ‘Na zéleche di neve / c’ammanté’ lu bbianche di chi li casette bbielle. / ‘Na zéleche di neve / c’ammanté’ lu rosce di li tittarielle / e le feste e l’allegrie / di ‘sta cuntrade di le Rapanice».
Versi spontanei che non presumono certo le vette poetiche, ma l’immagine che suscitano č suggestiva e quella parola dialettale č deliziosa. Stesa sulle aie «la zéleche» serviva soprattutto «pe’ spŕnnece» cereali e legumi per completarne l’essiccatura e assicurarne una migliore conservazione.
A piedi nudi ci si saliva sopra «pe’ vuscecŕ» o «pe’ rivuddŕ» con un apposito rastrello (io ricordo di aver usato «la mazze pe’ lavŕ’ ‘n terre») i chicchi perchč asciugassero meglio.
Lina mi dice che il panno spesso e grossolano era tessuto con «lu canapacce» o «canavacce», il filato della stoppa, cascame a sua volta del lino, e in sostanza «la zéleche» era un elemento indispensabile per certi corredi.
In un’economia che non sciupava nulla «la zéleche», quando diventava inservibile per lo scopo primario, poteva essere riciclata, utilizzando le parti migliori, per farne rozzi «sparacce», molto assorbenti tuttavia.
La grossolanitŕ e raspositŕ del tessuto erano proverbiali tanto da risaltare in diversi modi di dire: «E’ talute gne ‘na zéleche!», «Pése gne ‘na zéleche!», «Pězziche! Pare ‘na zéleche».
Quest’ultimo sembra autorizzare un’ardita, ma forse non improbabile connessione con «téleche» dal verbo «tilicŕ’» (latino “titillare”, spagnolo “titilar”, fare il solletico). Nella «zéleche», insomma «lu tilicŕ» era solo un po’ meno garbato e aveva perso la sua connotazione gradevole.
a.m.