La jummèlle

   - «Va’ da zâ... e fatte dà’ ‘na jummèlle de farine!» - Quante volte soprattutto le bambine delle passate generazioni hanno ubbidito a questa richiesta e hanno assolto a un compito non sempre gradevole.

   - «Me ne vrevogne!» - si rispondeva in qualche caso, perchè una volta la «» in questione aveva blaterato: - «Mo’ avaste! Dijje a mámmete ocche se l’accatte!» - Poteva trattarsi di farina o ceci o fagioli o grano o di altri “insiemi” in quantità tale che potesse essere contenuta nel concavo delle due mani unite dal lato interno. Un gesto misurato e preciso, quasi sacrale. Le mani affondavano, isolavano il quantitativo, lo portavano in superficie, lo facevano scivolare nella scodellina. Non ricordo di aver visto mai far questo gesto di fretta, ma sempre con misura, con parsimonioso ritegno; il che mi dava il senso di quel prestato-dono generoso sì, ma di una generosità attentamente soppesata. E bisognava stare molto attenti quando si veniva chiamati per aiutare a trasferire da un recipiente all’altro semi, cereali o i legumi perchè la punizione era così condensata:- «Bade, ca te le facce areccojje a jummèlle a jummèlle!» - Ho dimenticato quasi il gesto perchè è un’abilità non più richiesta e ho notato che i bambini lo evitano persino con la rena della spiaggia, dove sarebbe del tutto naturale.

   Ho cercato qualche tempo fa di far chiudere le mani «a jummèlle» a un bambino perchè potesse bere in un caso di emergenza. - Come faccio? - mi ha detto. - Prova! - gli ho risposto. Riuscì a trattenere nel cavo della mano un po’ d’acqua che leccò come potè, di certo non riuscì a bere «a jummèlle piene».