Gli amici del bar Margherita

   Quanti di voi parlando di libri letti con persone colte, molto colte, si sono sentiti un po’ a disagio quando costoro per atteggiarsi, per darsi un tono da intellettuale, vi hanno sciorinato dall’alto della loro cultura autori come Joice (l’Ulisse), Celine (Viaggio al termine della notte) o Proust (Alla ricerca del tempo perduto) ? Quante volte vi è rimasto il dubbio che  poi quelli lì abbiano effettivamente letto quei capolavori così ostici a noi comuni mortali ? Tante volte. Prendiamo ad esempio Proust che è il più citato da quelli con la puzzetta sotto al naso. Tu parli, che ne so, di Topolino e loro te la menano subito con Proust e La ricerca del tempo perduto. State attenti, vogliono solo far bella figura sperando di lasciare a bocca aperta gli amici astanti. L’unico rimedio, quando vi imbattete in tali figuri, è la vecchia sana ironia. Loro vi parlano di Proust? Voi fingetevi, per l’occasione, ignoranti e chiedete: chi è questo Proust? L’ex pilota di Formula 1? O ancora: Proust? Chi? Quello che rimpiangeva le buonissime mele piane piccole e verdi delle nostre campagne? Distruggete per favore quegli ego straripanti con l’unico atteggiamento possibile: quello dello sborone da bar (poi vedremo perché). Vi sentirete meglio e vi sarete tolti di mezzo persone noiose e boriose. Uno che invece vale la pena seguire, quando gira dei film, quando rilascia interviste, è il regista Pupi Avati , l’unico tra i cineasti italiani che ha il coraggio di rileggere in chiave lieve e ironica il nostro passato, o meglio il passato della nostra cara italietta. Anche lui scava nella sua (nostra) memoria,  per raccontare quel tempo che fu, ma senza pretese intellettualistiche, con leggerezza, appunto,  e con divertimento. E’ in programmazione in questi giorni nelle sale dei cinema il suo ultimo film “Gli amici del Bar Margherita”. Chi vuol passare in questi giorni, tristi per noi abruzzesi, un paio d’ore tra risate, nostalgia e sarcasmo non deve far altro che recarsi in uno dei cinema della zona, acquistare il biglietto e vedere il film. Il cast di attori è quello solito degli ultimi film di Avati (Abatantuono, Cavina, Ricciarelli, Marcorè….) più  alcune new entry azzeccatissime, perfettamente calate nel ruolo. Ma andiamo al punto: di cosa  si parla nel film? da quale nostalgia ci si lascia avvolgere nel vederlo? Si parla di un bar nella Bologna degli anni cinquanta, il bar Margherita, e della sgangherata combriccola di avventori che quel bar  frequentava. Un campionario di tipi strambi come ce n’erano tanti nei bar di una volta, raccontanti mirabilmente da un io narrante chiamato “coso” (Avati da ragazzo), un giovane ammaliato da quei personaggi che cerca in tutti i modi di farseli amici ed entrare nel gruppo. Il classico sborone da bar (Abatantuono) abile battutista e artista della stecca, il giovane siciliano ossessionato dalle donne e feticista irrecuperabile (Lo Cascio), il nonno erotomane (Cavina), già barbiere e presunto campione di stecca, che prende lezioni di pianoforte da una procace insegnante napoletana (Luisa Ranieri) e così via. E poi gli scherzi, le avventure amorose, le passioni frustrate, un po’ come Amici Miei di Monicelli, altro film capolavoro. Personaggi paradossali, così come paradossale era quel luogo. Un luogo misogino in una società misogina, l’Italia agli anni cinquanta/sessanta. Oggi sarebbe impensabile un giovane marito che lascia la moglie a casa la sera per andare al bar a giocare a tressette con gli amici o al bigliardo. Primo perché rischierebbe il divorzio immediato e secondo perché,  nella nuova concezione dei bar attuali, il bigliardo non c’è più. Così come era impensabile una donna come barista. Ma quanta nostalgia, ragazzi, per chi ha avuto la possibilità di frequentare quei luoghi in gioventù. Era il luogo di iniziazione nel mondo dei grandi (adulti). Le prime bevute, i primi racconti sconci, le prime partitelle a carte, le prime sigarette. E, come per l’io narrante del film, una volta entrato in quella compagnia di giro degli  abituali frequentatori del bar, l’ingresso nella sala della perdizione dove era sito sua maestà il bigliardo. Chi non ci ha mai giocato non può capire la poesia del bigliardo. Bisogna ricorrere ancora una volta al cinema e ad un altro autore atipico, Francesco Nuti, per carpire l’essenza, la magia di quel gioco splendido che era il bigliardo all’italiana. Il pianale verde riscaldato, le sponde soffici che vibravano ad ogni tum tum della palla, il fruscio dei birilli abbattuti, i colpi ad effetto di sapienti maestri che disegnavano traettorie geniali. E poi la sfida, lo sfottò, l’azzardo. Entravi in quella camera impregnata di fumo ed un mondo ti si apriva. Il medico, il Don del paese, che regolarmente perdeva con l’umile munnizzaro, l’infinita sfida del marito becco con l’eterno avversario, l’abilità del giovane talentuoso che però non riusciva a farsi largo nella vita. Personaggi da film appunto e con Pupi Avati come moderno cantore di quel mondo scomparso. E, se non siete ancora sazi di risate e nostalgia, dopo aver visto il film, tornate a casa, cercate nella vostra raccolta di cd Paolo Conte, trovate la canzone Caffè Mokambo e rivivete in versi e musica sprofondati in “un tinello marron” quell’atmosfera. Il bar come memoria della nostra vita sociale. Il bar come lente di ingrandimento o come metafora dell’evoluzione del costume italiano dagli anni cinquanta ad oggi. Il bar che frequentiamo da sempre un po’ tutti. Ora, prima di lasciarci travolgere da una nostalgia a questo punto patetica, parliamo dei bar dei nostri giorni. Tra le tante mode che ciclicamente investono la nostra Penisola ce n’è una che da un po’ di anni la fa da padrona nei nuovi scintillanti bar delle nostre città e paesi: il mega aperitivo che precede, se non sostituisce, la cena serale. Il cosiddetto after hour. Partita, come tutte le mode in Italia, da Milano si è diffusa rapidamente ovunque. Si entra in questi moderni bar che sembrano navicelle spaziali tanto sono luminosi, si attraversa, accecati dal bagliore artificiale delle luci, la sala, si cerca la cassa, che solitamente si trova alla fine del maxi bancone, in plexiglass dai colori sgargianti e si ordina l’agognato nuovo aperitivo. Nuovo perché aperitivo ormai è una diminutio tanta è la roba che il povero cameriere è costretto a portarvi al tavolino. Ed è, il nuovo aperitivo, il pretesto che giovani uomini e donne cercano per socializzare nei bar postmoderni di oggi. Prima naturalmente non era così.

Giovanni Cipriani